Si riportano le riflessioni dell’avvocato Francesco Lauri
<Strategie processuali e conciliative nella responsabilità del medico e della struttura sanitaria>
La responsabilità del medico è da tempo diventata un “sottosistema” della
responsabilità civile, per tale intendendosi un settore nel quale la
giurisprudenza e la normativa hanno introdotto tante e tali regole
derogatrici dei principi generali, da essere ormai divenuto quasi una
materia a sé stante.
Abbandonata l’ipotesi della mediazione chi, come il sottoscritto, si occupa
di responsabilità medica, tende ad adottare il procedimento indicato
dall’art. 8 della L. 24/17, c.d. legge Gelli-Bianco.
Un procedimento costellato da non poche aporie, il cui fine conciliativo è
rimesso alle competenze dei CTU e, soprattutto, alla lungimiranza dei
magistrati che dispongono di uno strumento eccezionale come la proposta
conciliativa ex articolo 185 bis.
L’assenza di copertura assicurativa, rende tuttavia ardua la definizione
transativa delle controversie da parte delle strutture pubbliche,
preoccupate – spesso immotivatamente – delle eventuali sanzioni della
Corte dei Conti.
E’ proprio questo l’organo giudiziario che, riteniamo, diverrà l’attore
principale per definizione delle vertenze in via stragiudiziale.
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Osservatorio Sanità è un’associazione nata nel 2007 con lo scopo di analizzare la
correttezza delle prestazioni sanitarie ricevute da cittadini che assumono di aver
subito un danno.
Lo scenario iniziale è caratterizzato da un contenzioso tutto sommato modesto in
ambito sanitario, la stragrande maggioranza delle strutture pubbliche e private sono
in copertura assicurativa con principali gruppi (Generali, Unipol Sai, Cattolica, AXA,
Allianz etc). Si cominciano ad affacciare compagnie di nuova generazione, come la
FARO.
Le segnalazioni sono tantissime, spesso evidenziano un pessimo rapporto tra
medico e paziente, a volte vengono segnalati quelli che gli anglosassoni chiamano
“errors waiting to happen” – errori che aspettano di accadere come le omesse, errate
comunicazioni tra reparti o mancato rispetto di protocolli (es. affrettata dimissione di
paziente febbrile e quindi, verosimilmente, con infezione nosocomiale in corso), altre
volte danni iatrogeni.
Le chiusure transattive sono all’ordine del giorno, il contenzioso è limitato. In assenza
della tabella unica nazionale prevista dall’art. 138 c.d.a. di cui al D.lgs 209/2005 (poi
modificato dalla L. 124/2017 art 1 co. 17 c.d. decreto concorrenza) si applicano “a
gradimento” e secondo il territorio tabelle di Roma o Milano.
Il principio giuridico dominante è il contratto da contatto sociale, sentenza capostipite
589/1999, 22894/2005, 12362/2006, fino alla sentenza delle Sezioni Unite 577/2008:
la responsabilità professionale medica trova titolo nell’inadempimento delle
obbligazioni ai sensi e per gli effetti dell’art.1218 c.c.
Tale responsabilità contrattuale deriva dalla fattispecie del c.d. contatto sociale da cui
scaturiscono, ex lege, una serie di prestazioni e di obblighi specifici: lealtà reciproca,
diligenza e perizia professionali, informazioni prima e durante il trattamento sanitario.
Una serie di obbligazioni, quindi, tra soggetti determinati e di contenuto specifico,
dirette a soddisfare un interesse predefinito, e non solo l’interesse generico a non
subire lesioni nella sfera dei propri diritti.
Con riferimento all’onere della prova si applicano i principi in tema di inadempimento
delle obbligazioni, pertanto: l’attore, paziente danneggiato, deve limitarsi a provare
l’esistenza del contratto o del contatto sociale in uno con l’insorgenza o
l’aggravamento della patologia ed allegare l’inadempimento del debitore,
astrattamente idoneo a provocare il danno lamentato. Mentre il debitore, medico o
struttura sanitaria, deve dimostrare o che tale inadempimento non vi è stato ovvero
che, pur sussistendo, esso non è stato eziologicamente rilevante dal momento che
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gli esiti peggiorativi sono stati determinati da un evento imprevisto ed imprevedibile a
sé non imputabile.
Nessuna distinzione tra medico e struttura.
Il 1 marzo 2006 viene introdotto nel nostro c.p.c. lo strumento che diventerà punto
nodale della legge Gelli-Bianco: il ricorso ex art 696 bis. In sostanza si vuole tentare
la strada conciliativa deflattiva in un ambito che comincia a diventare sempre più
protagonista nel panorama del contenzioso nazionale.
Lo strumento è atipico, astrattamente libero nelle forme e nelle tempistiche.
Per fare un esempio: alla mancata allegazione di documenti all’atto dell’iscrizione a
ruolo del ricorso si può sopperire mediante produzione diretta in ambito peritale,
previa autorizzazione delle parti o degli stessi CC.TT.U., non vi è infatti la rigida
preclusione di cui all’art 183 c.p.c.
Stante l’atipicità e la fluidità del ricorso, e considerato l’aspetto teleologico – la
conciliazione – si tenta di coinvolgere direttamente in questa sede le compagnie di
assicurazione. Qualche Giudice lo consente, mostrando di aver compreso lo spirito
del legislatore. Altri no.
La L. 69/2009, poi, introdurrà l’altro strumento previsto dalla L. Gelli-Bianco a
completamento del percorso conciliativo introdotto dall’art 8: il ricorso a cognizione
sommaria ex art 702 bis c.p.c..
Vedete, dunque, come il progetto di racchiudere in un sottosistema processuale il
contenzioso medico venga da lontano ed è su questa architrave che lavorerà la
commissione tecnica, affidata al prof. Guido Alpa dall’allora Ministro Lorenzin, per
tratteggiare una soluzione normativa volta a – per usare lo slogan di allora – creare
l’alleanza terapeutica tra medico e paziente e combattere il fenomeno della medicina
difensiva: due pilastri di ipocrisia e lobbying su cui si è basata tutta la propaganda
che ha condotto poi all’adozione della L. 24/17, come vedremo.
D’altronde, al legislatore pre-Gelli non era sfuggita l’impennata improvvisa di citazioni
aventi ad oggetto presunti errori medici: basti pensare che dal 2001 AL 2011 le
massime della Cassazione in materia di responsabilità medica sono state 201, una
volta e mezza superiore al sessantennio immediatamente antecedente, ossia dagli
anni ’40 al 2000.
Insomma la strada intrapresa, con buona pace di qualche Giudice più o meno
reazionario, sembrava quella giusta: attraverso un A.T.P. si accerta l’errore e si tenta
di conciliare, ed attraverso un ricorso a cognizione sommaria si riducono i tempi di
contenzioso.
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Ma il legislatore, mai domo, pensa bene di introdurre il più grande flop della storia
della conciliazione in materia di responsabilità medica: la mediazione ex d.lgs
28/2010 e divenuta obbligatoria il 21.03.2011.
Io non conosco i dati statistici nazionali, conosco quelli di Osservatorio Sanità: su
circa 40 richieste di mediazione una sola si è conclusa con un accordo che, peraltro,
è sopraggiunto a trattative già pendenti con la compagnia assicurativa.
Pensare di poter risolvere scontri epici tra avvocati e medici legali mediante
l’intervento di un timido mediatore, formatosi in pochi mesi con l’unico scopo di
dirimere controversie con la sola forza del pensiero, è stata la scelta più ridicola degli
ultimi anni che ha costretto peraltro il cittadino non solo ad esborsi economici, ma
anche ad inutili perdite di tempo.
Ed allora si è assistito a sforzi congiunti per limitare i danni o quantomeno per ridurne
la portata: prima ci ha provato la magistratura di merito, memorabile il decreto del
Consigliere Giuseppe Buffone del Tribunale di Varese del 24.07.2012 (“Sul piano
squisitamente logico-giuridico, non può poi, comunque, non segnalarsi l’aporia del
“mediare per chiedere di mediare” posto che con il ricorso ex art. 696-bis c.p.c. la
parte non chiede la distribuzione di torti e ragioni ma di sperimentare un tentativo di
risoluzione della lite con modalità alternative.”) (v. doc. 1).
Poi è stata la volta della Consulta che con sentenza n. 272/2012 dichiara
incostituzionale la mediazione obbligatoria “per eccesso di delega legislativa”.
Nel frattempo il denaro e gli sforzi per mettere in moto la giostra della mediazione
erano di tale portata da costringere il legislatore a far rientrare dalla finestra la
mediazione con il cosiddetto decreto del fare 69/2013 nel settembre 2013.
Nello stesso decreto, tuttavia, il legislatore ha aggiunto alla lista dei procedimenti
espressamente esclusi dalla mediazione obbligatoria quelli di cui all’art 696 bis c.p.c..
Quindi, dopo appena un anno di inutili tentativi di mediazione, si è tronati al binomio
procedurale ex artt. 696 bis/702 bis c.p.c., ancorché allo stato “indisciplinato”.
Nel frattempo, si assiste ad una definitiva fuga delle grandi compagnie, con
contestuale avvento nel comparto medmal di nuove compagnie, come Amtrust e
Sham che oggi hanno la leadership.
Il fenomeno della fuga è legato ad una serie di fattori:
Se da un lato la maggior parte delle strutture pubbliche cominciano ad optare per
l’autotutela, dall’altro l’assenza di tabelle nazionali, i risarcimenti di danni da morte
ipertrofici rispetto agli standard europei e la natura contrattuale della responsabilità
dei medici, rendono poco appetibile il mercato del comparto medico.
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Del primo aspetto parleremo più avanti prima di cedere la parola al Dott. Iadecola.
Sugli altri aspetti evidenzio che il Governo Monti tra il 2011 e 2013 ha tentato, con
opposizione feroce dalla maggior parte delle associazioni di categoria, di far
approvare tramite decreto le tabelle nazionali, che prevedevano una riduzione di
circa il 30% sui risarcimenti valutabili mediante applicazione delle tabelle di Milano,
ed introducevano nuovi criteri per la quantificazione del danno da morte.
Siamo in un periodo in cui il concetto di perdita di chance è ancora al di là da venire
ed il danno morale da morte si affida in termini probatori al principio del id quod
plerumque accidit: tra prossimi congiunti (genitori, figli, fratelli) sussiste un legame
affettivo che giustifica in re ipsa il risarcimento tabellare.
Parliamo di risarcimenti mediamente novanta volte superiori alla Gran Bretagna,
dieci alla Francia, cinque alla Spagna.
Ora, Immaginiamo famiglie numerose, con fratelli spesso in lite tra loro che si
ritrovano miracolosamente uniti dopo la morte del germano: ecco, in questo clima, le
compagnie sono scappate.
Attualmente, per completezza di esposizione, la Suprema Corte ha corretto il tiro: già
con sentenza Cass. Civ., Sez. III, 6/9/2012, n.14931, pur affermando l’esistenza di
una presunzione iuris tantum di danno in favore dei membri della famiglia nucleare,
ha ribadito a più riprese che il ricorso a valutazioni prognostiche e a presunzioni è
consentito sulla base di elementi obiettivi che è onere del danneggiato fornire.
E ancora con Sent. 907/2018 ha poi affermato che “Ai fini dell’accoglimento della
domanda di risarcimento del danno subito a causa della uccisione di un prossimo
congiunto, non hanno rilievo le qualificazioni adoperate dagli interessati, ma è
necessario che il pregiudizio venga compiutamente descritto e che ne vengano
allegati e provati gli elementi costitutivi … tenuto conto che la possibilità di provare
per presunzioni non esonera chi lamenta un danno e ne chiede il risarcimento da
darne concreta allegazione e prova” Cass. Civ., Sez. III, 17/1/2018, n. 907)”
(Tribunale Venezia 1 giugno 2021 su onere della prova e danno perdita rapporto
parentale).
Monti affida poi al Ministro della salute Balduzzi il compito di tentare di ridurre le tante
citazioni in giudizio dei medici italiani. Viene dunque approvata la L. 189/2012 il cui
art 3 recita: “L’esercente le professioni sanitarie che nello svolgimento della propria
attività si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica
non risponde penalmente per colpa lieve”.
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Ebbene, in ambito civilistico i tribunali, Milano in testa, cominciano ad adottare la
seguente tesi: poiché l’omologo civilistico della responsabilità penale, cui fa
riferimento l’art 185, è la responsabilità extracontrattuale, la condotta del sanitario
che si attiene alle linee guida ed alla buona prassi medica andrà valutata ai sensi
dell’art. 2043 cc.
Inoltre, ferma restando la responsabilità contrattuale della struttura, ricondurre la
responsabilità del medico nell’alveo della responsabilità da fatto illecito ex art. 2043
c.c. dovrebbe altresì favorire la c.d. alleanza terapeutica fra medico e paziente,
alleggerendo l’onere probatorio gravante sullo stesso. Sarà infatti il danneggiato non
più ad allegare l’inadempimento qualificato, ma a dover provare che il medico non ha
rispettato linee guida e protocolli.
La legge Balduzzi ha indubbiamente avuto il merito di ridurre drasticamente il
contenzioso tra paziente e medico. È ovvio che un cittadino, ma ancor più un
avvocato avveduto, preferirà agire nei confronti della struttura, avendo più tempo (10
anni) e minor carico probatorio e, aggiungo, potendo contare su una difesa
tendenzialmente meno agguerrita viste le modeste parcelle che alcune strutture
liquidano ai nostri valenti contraddittori.
In occasione della Balduzzi organizzai un convegno con il Dott. Rossetti e con il Dott.
Gattari, autore di una sentenza storica la 9693 del 2014 (v. doc.2) – peraltro un caso
dello studio legale Lauri – in cui il magistrato spiegava perché si dovesse ragionare
in termini di responsabilità aquiliana.
La legge Balduzzi, inoltre, fa da apripista per quella che sarà la madre di tutte le
riforme in materia di responsabilità medica, la legge Gelli/Bianco, che nasce sulla
duplice spinta risibile dell’alleanza terapeutica paziente/medico (in altri termini “tu non
mi denunci ed io ti curo bene”) ma soprattutto, della madre di tutte le menzogne:
arginare il fenomeno della medicina difensiva.
Una battaglia fortemente sostenuta dall’allora Ministro Lorenzin che si basa su
questa fantascientifica tesi: il timore di ricevere una denuncia, una citazione in
giudizio o una sanzione disciplinare, condivisa da quasi 80% dei medici italiani,
determina la prescrizione di farmaci, indagini e ricoveri in misura spropositata rispetto
al dovuto, tale da determinare una spesa sanitaria di circa 10 miliardi l’anno, pari allo
0.75 per cento del prodotto interno lordo (v. doc.3)
In sostanza, secondo la visione Lorenzin, poi presa in carico da Gelli e Bianco, otto
medici su dieci prescrivono terapie e indagini a caso.
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Ora, la prima cosa che ho appreso confrontandomi con medici legali e giuristi in
questa materia è che al medico è richiesta una diligenza qualificata, superiore a
quella che viene richiesta ad una persona comune (c.d. diligenza del buon padre di
famiglia), ed è commisurata alla prestazione che lo stesso deve eseguire.
Il secondo principio che ho appreso è legato alla c.d. diagnosi differenziale,
procedimento che tende ad escludere, tra varie manifestazioni simili, quelle che non
comprendono l’insieme dei sintomi riscontrati durante gli esami, fino ad individuare
quella corretta.
E allora, se un soggetto iperteso con forte dolore alla testa si reca in ospedale, il
medico di guardia dovrà mandarlo a casa con un OKI, o sottoporlo ad un’indagine
tale da escludere un’emorragia cerebrale.
Nel primo caso avremo di fronte un incompetente, che è giusto che venga citato in
giudizio qualora si trattasse di attacco ischemico, nel secondo caso avremmo di
fronte un professionista accorto cui non interessa quanti soldi farà spendere al
sistema sanitario, ma che sottoporrà il paziente a tutte le indagini strumentali che
possano escludere eventi ischemici. Solo allora manderà via il paziente con un OKI.
Questo per dire che la tesi della medicina difensiva è stata pura propaganda. Io non
crederò mai che 8 medici su 10 temano denunce, i medici che conosco io sono bravi,
sanno far bene il loro lavoro e prescrivono correttamente indagini.
Mi permetto di dire che la percentuale di cause vinte da Osservatorio è intorno al
85%, molte di queste riguardano negligenze in ambito terapeutico, tra cui omesse
ingiustificate indagini.
Comunque, la propaganda sembra aver funzionato perché il 1 aprile 2017 viene
pubblicata la L. 24/17, molti pensavamo ad uno scherzo, ma così non è stato.
Non vi parlerò della Legge, che conoscerete a menadito, mi soffermerò sugli aspetti
pratici, prendendo anche spunto dalle linee guida in materia di accertamento tecnico
preventivo ai sensi dell’art. 8 della L. 24/17 redatte e diffuse in XIII sezione, con
supervisione del Dott. Michele Cisterna (doc.4)
Dunque l’art. 8 recita così:
“Tentativo obbligatorio di conciliazione
- Chi intende esercitare un’azione innanzi al giudice civile relativa a una
controversia di risarcimento del danno derivante da responsabilita’ sanitaria e’
tenuto preliminarmente a proporre ricorso ai sensi dell’articolo 696-bis del codice
di procedura civile dinanzi al giudice competente.
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- La presentazione del ricorso di cui al comma 1 costituisce condizione di
procedibilita’ della domanda di risarcimento. E’ fatta salva la possibilità di esperire in
alternativa il procedimento di mediazione ai sensi dell’articolo 5, comma 1-bis,
del decreto legislativo 4 marzo 2010, n. 28. In tali casi non trova invece
applicazione l’articolo 3 del decreto-legge 12 settembre 2014, n.132, convertito,
con modificazioni, dalla legge 10 novembre 2014, n.162. L’improcedibilità deve
essere eccepita dal convenuto, a pena di decadenza, o rilevata d’ufficio dal giudice,
non oltre la prima udienza. Il giudice, ove rilevi che il procedimento di cui
all’articolo 696-bis del codice di procedura civile non è stato espletato ovvero che
e’ iniziato ma non si e’ concluso, assegna alle parti il termine di quindici giorni per la
presentazione dinanzi a se’ dell’istanza di consulenza tecnica in via preventiva
ovvero di completamento del procedimento.
- Ove la conciliazione non riesca o il procedimento non si concluda entro il
termine perentorio di sei mesi dal deposito del ricorso, la domanda diviene
procedibile e gli effetti della domanda sono salvi se, entro novanta giorni dal
deposito della relazione o dalla scadenza del termine perentorio, e’ depositato,
presso il giudice che ha trattato il procedimento di cui al comma 1, il ricorso di cui
all’articolo 702-bis del codice di procedura civile. In tal caso il giudice fissa
l’udienza di comparizione delle parti; si applicano gli articoli 702-bis e seguenti
del codice di procedura civile.
- La partecipazione al procedimento di consulenza tecnica preventiva di cui
al presente articolo, effettuato secondo il disposto dell’articolo 15 della presente
legge, è obbligatoria per tutte le parti, comprese le imprese di assicurazione di
cui all’articolo 10, che hanno l’obbligo di formulare l’offerta di risarcimento del
danno ovvero comunicare i motivi per cui ritengono di non formularla. In caso di
sentenza a favore del danneggiato, quando l’impresa di assicurazione non ha
formulato l’offerta di risarcimento nell’ambito del procedimento di consulenza
tecnica preventiva di cui ai commi precedenti, il giudice trasmette copia della
sentenza all’Istituto per la vigilanza sulle assicurazioni (IVASS) per gli
adempimenti di propria competenza. In caso di mancata partecipazione, il giudice,
con il provvedimento che definisce il giudizio, condanna le parti che non hanno
partecipato al pagamento delle spese di consulenza e di lite, indipendentemente
dall’esito del giudizio, oltre che ad una pena pecuniaria, determinata
equitativamente, in favore della parte che è comparsa alla conciliazione.”
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Per una corretta lettura dell’articolo 8, occorre rimandare al combinato disposto dell’
art. 10, co. 6 che recita “con decreto del ministro dello sviluppo economico da
emanare entro 120 giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge … sono
determinati i requisiti minimi delle polizze assicurative…” e art. 12 co. 1 “fatte salve
le disposizioni della’art 8, il soggetto danneggiato ha diritto di agire direttamente…nei
confronti dell’impresa di assicurazione”.
Sono trascorsi 1881 giorni dal lontano 1 aprile 2017, e degli agognati decreti attuativi
neanche l’ombra.
Sulla scorta di quanto avveniva nell’era pre-Gelli, abbiamo tentato di coinvolgere sin
da subito le compagnie, quelle poche rimaste, senza successo sicché, in sostanza,
la L. Gelli e l’assenza di decreti attuativi ci hanno rimandato indietro di qualche lustro.
Le linee guida della XIII sezione del Tribunale di Roma danno le seguenti indicazioni:
1) Valutazione di ammissibilità del ricorso:
Il procedimento deve, come noto, essere introdotto con ricorso cui si
applicano le norme generali relative alla forma e al contenuto degli atti
introduttivi e quelle speciali relative ai procedimenti di istruzione
preventiva: il ricorso dovrà pertanto contenere — ai sensi dell’art. 693 c.p.c.
— l’esposizione sommaria dei fatti e della domanda cui la consulenza risulta
strumentale. Ove le allegazioni risultino talmente generiche da non porre
in grado il giudice di conoscere e valutare le questioni tecniche rilevanti nella
controversia, né di formulare i quesiti da porre al CTU se non in termini
meramente esplorativi il ricorso sarà dichiarato inammissibile. La dichiarazione di
inammissibilità, permette comunque l’introduzione del giudizio di merito.
2) Soggetti di procedimento
Le Compagnie di assicurazione Stante il combinato disposto degli artt.
12, commi 6 e 10, della legge Gelli-Bianco – sino a quando non sarà emanato il
decreto attuativo che disciplinerà, tra l’altro, i requisiti minimi delle polizze
assicurative e le eccezioni opponibili al terzo danneggiato ex art. 12, comma 2,
ovvero il decreto ministeriale cui è subordinata la vigenza della disciplina
normativa sull’azione diretta – il ricorrente non dispone di azione diretta nei
confronti della compagnia di assicurazione del sanitario e/o della struttura.
Ove dunque il ricorrente provvedesse a notificare il ricorso ex art. 696 bis
c.p.c. ed il decreto di fissazione del giudice anche alla compagnia assicuratrice
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– per giunta in assenza di autorizzazione da parte del giudice procedente – il
giudice stesso dichiarerà inammissibile il ricorso per questa parte all’udienza
di comparizione con condanna alle spese di lite. Si autorizzerà, invece, la
chiamata della compagnia ad opera del convenuto. Ove il convenuto non
chieda di essere autorizzato alla chiamata in garanzia della compagnia
assicurativa in sede di procedimento ex art. 696 bis c.p.c. verrà valutata con
rigore la successiva istanza di chiamata in causa della medesima compagnia
in sede di giudizio di merito. Nel caso in cui la compagnia di assicurazione
non sia stata parte del giudizio di ATP la consulenza tecnica svolta in tale
sede sarà comunque valutabile dal Giudice in sede di merito previa
sollecitazione del contraddittorio e tenuto conto delle eventuali osservazioni
critiche specifiche mosse da chi non ha preso parte al giudizio ex art.696-bis
c.p.c.
2.2 I sanitari Si ritiene che l’art. 8 della L. 24/2017 al comma 4 nella parte
in cui dispone che «la partecipazione al procedimento di consulenza tecnica
preventiva di cui al presente articolo, effettuato secondo il disposto dell’articolo 15
della presente legge, è obbligatoria per tutte le parti, comprese le imprese di
assicurazione di cui all’articolo 10…» alla luce di una corretta interpretazione sia
letterale, sia sistematica debba essere inteso nel senso di escludere che nel
procedimento di ATP conciliativo ex art. 696-bis c.p.c. – proposto dal
danneggiato nei confronti della sola struttura sanitaria – il medico
responsabile sia litisconsorte necessario. In primo luogo l’interpretazione
letterale della norma di cui all’art. 8 induce a ritenere che la stessa imponga
l’obbligo di partecipazione delle parti e, cioè, di quelle già evocate nel
procedimento di istruzione preventiva (che perciò sono definite «parti») e
non certo l’obbligo per il danneggiato di attrarre al procedimento di
istruzione preventiva tutti i presunti corresponsabili (che ancora «parti» non
sono). Inoltre, dal punto di vista dell’interpretazione sistematica, sia l’art. 9
che l’art. 12 della legge 24/2017 depongono nel senso di escludere che il sanitario
sia litisconsorte necessario. L’art. 9, infatti, nel disciplinare le
“azioni di rivalsa”, al comma 2, dispone: «se l’esercente la professione sanitaria
non è stato parte del giudizio o della procedura stragiudiziale di risarcimento del
danno, l’azione di rivalsa nei suoi confronti può essere esercitata soltanto
successivamente al risarcimento avvenuto sulla base di titolo giudiziale o
stragiudiziale ed è esercitata, a pena di decadenza, entro un anno dall’avvenuto
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pagamento». Tale norma, pertanto, nel prevedere l’ipotesi che l’esercente la
professione sanitaria possa non essere stato parte del giudizio, conferma la
tesi fin qui argomentata che, nel procedimento di istruzione preventiva
proposta nei confronti della struttura sanitaria e della sua impresa di
assicurazione, il medico responsabile non sia litisconsorte necessario. L’art. 12
al comma 4, poi, prevede che: «Nel giudizio promosso contro l’impresa di
assicurazione della struttura sanitaria o sociosanitaria pubblica o privata a norma del
comma 1 è litisconsorte necessario la struttura medesima; nel giudizio promosso
contro l’impresa di assicurazione dell’esercente la professione sanitaria a norma del
comma 1 è litisconsorte necessario l’esercente la professione sanitaria». Tali
disposizioni normative – che tra l’altro non sono ancora applicabili per la
mancata approvazione del decreto attuativo di cui all’art. 12, comma 6, l. 8
marzo 2017 n. 24 – sono le uniche che prevedono il litisconsorzio necessario
sia nel procedimento di istruzione preventiva, sia nel successivo giudizio di
merito. Deve ritenersi, pertanto, per tutto quanto fin qui esposto che nel
procedimento di ATP conciliativo proposto dal danneggiato, ex art. 696-bis
c.p.c. e art. 8 legge 8 marzo 2017 n. 24, nei confronti della struttura sanitaria
(e nel successivo giudizio di merito avente ad oggetto il risarcimento del
danno) l’operatore responsabile ed il personale medico in servizio facente
parte dell’équipe medica e/o chirurgica non siano litisconsorti necessari e,
pertanto, possano certamente essere pretermessi. Si applicano, pertanto, i
principi generali e consolidati in tema di obbligazioni solidali (artt. 1292, 1294
e 2055 c.c.), con conseguente facoltà di scelta per il danneggiato di agire nei
confronti di uno o di alcuni o di tutti i condebitori solidali, in quanto proprio
in ciò si sostanzia l’essenza della responsabilità solidale.
2.3 Chiamata in causa del sanitario Alla luce di quanto sopra ritenuto in
tema di litisconsorzio necessario e del disposto dell’art. 9 L. 24/2017 non verrà
autorizzata la chiamata in causa del sanitario responsabile da parte della
struttura unica convenuta dal danneggiato. Si ritiene, infatti, da un lato che
la chiamata in causa di un terzo, a differenza dell’ordine di integrazione del
contraddittorio ex art. 102 c.p.c., involga valutazioni circa l’opportunità di
estendere il contraddittorio ad altro soggetto, ed è, dunque, rimessa alla
discrezionalità del giudice il quale potrà disporre o meno il differimento
dell’udienza ed autorizzare la chiamata in causa di un terzo motivando la
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decisione sulla base di esigenze di economia processuale e ragionevole durata
del processo (cfr. Cassazione sezioni unite 4309/2010; Cassazione 7406/2014 e
Cassazione 9570/2015); dall’altro lato che l’art. 9 legge 24/2017 subordinando
l’esperibilità della azione di rivalsa a tre condizioni – ossia 1) l’esistenza di un
titolo giudiziale o stragiudiziale che accerti la responsabilità e condanni la
struttura al risarcimento del danno nei confronti del danneggiato; l’effettivo
pagamento da parte della struttura; il rispetto del termine decadenziale –
renda inammissibile la proposizione di una azione di rivalsa “contestuale”
3) tentativo di conciliazione Posto che il tentativo di conciliazione
deve essere svolto sicuramente prima del deposito della relazione peritale
definitiva, si ritiene che in linea di principio il CTU debba convocare le parti
per il tentativo di conciliazione al più tardi entro dieci giorni dall’invio dalla
bozza di relazione. Il meccanismo prognostico alla base del procedimento
suggerisce, infatti, che il tentativo di conciliazione si svolga dopo che i
consulenti hanno eseguito gli accertamenti richiesti dal giudice e ne hanno
condiviso l’esito con le parti che potranno, quindi, partecipare al tentativo
avendo già formulato le proprie valutazioni sul possibile e/o probabile esito
della lite; procedendo in questo modo il collegio peritale potrebbe, dunque,
comunicare il contenuto della bozza della relazione alle parti e, quindi,
convocarle per un incontro finalizzato a verificare la possibilità di un
accordo, avendo l’occasione – in quella sede – anche di discutere con loro e
con i rispettivi consulenti i contenuti e le conclusioni dell’elaborato. Fermo
restando che le peculiarità del caso possono suggerire la scelta di un
momento diverso e che il collegio può reiterare il tentativo in ogni momento.
3.3 Esiti del tentativo di conciliazione Se viene raggiunto l’accordo il
consulente redigerà il verbale di conciliazione dando atto delle intese
intervenute tra le parti e, in particolare, dell’entità del risarcimento
concordato. Ai sensi del comma 3, dell’art. 696-bis, sarà poi il giudice ad
omologare il verbale, attribuendogli efficacia esecutiva ai fini della
esecuzione forzata, anche in forma specifica e dell’iscrizione di ipoteca
giudiziale. Nel caso di mancato accordo il collegio peritale procederà a
redigere un verbale negativo e dovrà, quindi, depositare la relazione che
andrà acquisita nel giudizio di merito promosso dall’interessato nelle forme
di cui agli artt.702-bis ss., c.p.c. e nei termini di cui all’art. 8. In caso in cui le
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parti non compaiano all’udienza conclusiva del procedimento per
intervenuto accordo stragiudiziale si procederà nelle forme di rito alla
cancellazione della causa dal ruolo con estinzione del procedimento.
4) violazione termine per la proposizione del ricorso.
La perentorietà del termine di novanta giorni (dal decorso dei sei mesi dal
deposito del ricorso ex art. 8 L. 24/2017 e 696 bis c.p.c.) per il deposito del
ricorso ex art. 702 bis c.p.c. ai fini dell’introduzione del giudizio di merito
deve essere intesa nel senso che il rispetto del termine sia funzionale
esclusivamente a preservare gli effetti sostanziali e processuali della
domanda introdotta con il ricorso per ATP e non alla procedibilità della
domanda di merito. Se depositato oltre la scadenza del termine di novanta
giorni, il ricorso è procedibile, ma può produrre solo ex novo i suoi effetti
sostanziali e processuali. La parte che voglia beneficiare della salvezza degli
effetti della sua domanda, ha l’onere – a prescindere dallo stato in cui si trova
la consulenza – di promuovere il giudizio di merito nelle forme del rito
sommario, entro il termine di 90 giorni che decorre dalla scadenza del
termine semestrale, anche nel caso in cui questa sia interessata a proseguire il
procedimento ex art. 696-bis per conoscere l’esito della relazione e
partecipare al tentativo di conciliazione.
DOMANDA: se lascio decorrere i 90 giorni, che effetti spiega il 696 bis? Nel silenzio
interpretativo posso legittimamente ipotizzare la presentazione di un nuovo ricorso
che, se correttamente articolato e suffragato da nuova consulenza dovrà essere
accolto. Certo, peserà nell’ambito della nuova C.T.U. e soprattutto nel successivo
702 bis la prima C.T.U. sfavorevole, ma in astratto si può fare.
Il Presidente Cisterna, invitato ad un convegno organizzato dal sottoscritto all’alba
della L. Gelli/Bianco, ed all’epoca appena insediatosi alla guida della XIII sezione,
dinanzi alla mia domanda “ma perché la maggior parte dei 702 bis vengono
convertiti, anche senza rinnovazione di CTU?” rispose con la sua solita ed
apprezzabile schiettezza che le ordinanze non fanno statistica. In altre parole,
l’operato del giudice non viene valutato al fine degli scatti di carriera.
Le cose nel frattempo sono cambiate: la riforma Cartabria sta fortemente
incoraggiando le soluzioni transattive ed è stato istituito un apposito registro dove
vengano inserite le articolate proposte conciliative ex art 185 bis andate a buon fine.
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Infatti la sezione XIII del Tribunale di Roma, così come la III del Tribunale di Palermo,
sono nettamente orientate verso la conciliazione, sia mediante formulazione di
proposte ex art 185 bis c.p.c., sia mediante invio delle parti a mediazione (doc. 5).
E qui vengono i dolori.
La maggior parte delle strutture sanitarie pubbliche, direi tutte nel Lazio, non sono
assicurate, sono in autotutela e sono terrorizzate, dicono, dalla Corte dei Conti.
I direttori generali restano in carica mediamente cinque anni, quando arriva la
sentenza sono già spariti e allora il ragionamento è di natura donabbondesca: “io me
ne vado tra poco, lascio al mio successore le gatte da pelare”.
E quindi pur di fronte a transazioni incoraggiate dai giudici e/o dai CC.TT.U.
CHIARAMENTE favorevoli, preferiscono un provvedimento che li condanni al 30% in
più, oltre che alla lite temeraria ex art 96 c.p.c., con esposizione alla responsabilità
da danno erariale, piuttosto che conciliare.
Sintomatiche sono le due sentenze allegate (v. doc.ti 6 e 7).
Nel primo caso, dopo aver un noto ospedale romano sottoposto ai danneggiati un
atto di quietanza regolarmente autorizzato dal CVS per complessivi € 600.000,00 –
somma accettata dagli attori – ha ritenuto di non dover dar seguito alle intese
raggiunte, subendo la conseguente condanna del Tribunale di Roma al pagamento di
una somma nettamente maggiore a titolo risarcitorio e di responsabilità aggravata ex
art. 96 c.p.c.
Nel secondo caso, la mancata partecipazione alla mediazione delegata dal giudice
ha determinato, parimenti, la condanna al pagamento di una somma risarcitoria
nettamente superiore.
Evidentemente bisogna lavorare su due fronti:
- tranquillizzare i CVS
- responsabilizzare i direttori generali.
Per far questo sarebbe auspicabile uno strumento che permetta alle ASL di accedere
preventivamente alla Corte dei Conti in via consultiva, attività consentita agli enti
locali dall’art. 7 co.8 L.131/2003, onde valutare la congruità di una proposta
conciliativa formulata dai giudici ex art 185 bis, ovvero dalle parti direttamente.
Di fronte ad un parere favorevole, verrebbero meno le preoccupazioni paventate ed il
contenzioso avrebbe una ricaduta deflattiva rilevantissima.
Occorre dunque lavorare, ed alacremente, in questa direzione.